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Perché a Cuba non ci sono esplosioni sociali?

di Italia-Cuba · 3 Novembre 2019

Un’amica brasiliana che, come giornalista, è stata a Cuba per alcuni giorni mi commentava del suo stupore circa il fatto di come tutti i cubani con cui ha parlato sapessero chi è Bolsonaro,

chi è Dilma e chi è Lula, cosa che non succedeva in altri paesi dell’America Latina che aveva recentemente visitato. L’eccezionale interesse con cui i cubani seguono gli eventi internazionali è qualcosa di molto particolare che di solito passa inosservato per quelli di noi che vivono sull’isola.

In questo momento, le esplosioni sociali in Haiti, Cile, Panama ed Ecuador, il conflitto di poteri in Perù, le interminabili repressioni ed omicidi di dirigenti sociali in Honduras e Colombia, l’ingovernabilità ereditata che costringe il governo messicano a liberare un trafficante di droga, l’ingiusta prigione del dirigente della sinistra brasiliana per impedire la sua sicura vittoria elettorale e le elezioni in Bolivia ed Argentina, le costanti aggressioni USA contro il Venezuela, o l’Ucrainagate in cui è impantanato Donald Trump, possono essere tema di conversazione ovunque a Cuba, da un angolo in cui si gioca a domino ad un’aula universitaria.

Naturalmente, queste conversazioni non evadono le gravi difficoltà che attraversa l’economia cubana, contro cui, ogni settimana, vengono annunciate nuove sanzioni del governo USA, né alcuna delle deficienze nei servizi con cui la cittadinanza si scontra, in cui l’impatto del blocco economico si può mescolare con l’inedia burocratica e causare inconvenienti ed insoddisfazioni ingiustificate.

Tuttavia, questa mescolanza di guerra economica con insufficienze interne non provoca esplosioni sociali e quando il sistema -socialismo con Partito unico- si è sottoposto alla prova delle urne, come nel recente referendum costituzionale, nonostante l’intensa propaganda contro il processo a cui, ogni anno, gli USA destinano decine di milioni di dollari ed una ben finanziata “Cuba Internet Task Force”, i risultati sono straordinariamente favorevoli alla dirigenza rivoluzionaria che Washington, da sei decenni, cerca di demolire.

La spiegazione del meccanismo mediatico dominante è che la miscela dell’ “intensa repressione del regime” ed il “rilassamento cubano” previene un’esplosione. Ma nella storia di Cuba -dalla riconcentrazione di Weyler alla dittatura di Batista, passando per quella di Machado- nessun regime basato sulla repressione è riuscito a permanere a lungo alla testa del paese, nonostante un “rilassamento” in cui la corruzione era la dinamica di funzionamento della politica e dell’economia a tutti i livelli.

Al contrario, se invece che a febbraio, la consultazione elettorale si effettuasse ora, nel mezzo di un blocco intensificato, la percentuale di approvazione supererebbe di gran lunga quella ottenuta allora, e ciò sarebbe frutto, senza dubbio, della combinazione di tre fattori congiunturali e due fattori strutturali.

Congiunturali:

L’intensificazione dell’aggressività del governo USA rafforza il sentimento patriottico e l’unità nazionale.

L’efficacia politica del governo cubano, spiegando in modo convincente il rapporto delle carenze con l’incremento dell’aggressione ed il modo in cui la strategia per far fronte alle sanzioni USA cerca di ridurne il loro impatto sulla vita quotidiana del popolo.

Situazione internazionale con evidente fallimento delle politiche neoliberali e discredito delle formule della democrazia borghese.

Strutturali:

Cultura politica di massa tra i cubani, fondata durante 60 anni dalla pedagogia di Fidel Castro, circa la natura dell’imperialismo e sul progetto di giustizia sociale e sovranità nazionale della Rivoluzione.

Vincolo della dirigenza rivoluzionaria con il popolo, rinnovato dal governo di Miguel Díaz Canel, che ha rafforzato la percezione che il governo ascolti il ​​popolo e lavori per lui.

Nessun paese latinoamericano di quelli che, in questo momento, reprime con spari e gas la protesta sociale e/o viola apertamente le regole della democrazia formale che loro stessi difendono, sono stati sottoposti alla guerra economica, al finanziamento multimilionario per creare un’opposizione artificiale e tanto meno al linciaggio mediatico ed accademico, verso i suoi dirigenti ed il suo progetto politico e sociale.

Ma nonostante tutto ciò c’è da riconoscere che ci sono persone insoddisfatte a Cuba e molte di quelli insoddisfatti vanno a Miami. L’accumulo, per quasi sei decenni, di privilegi migratori insieme allo sviluppo delle capacità educative e lo stato di salute propiziati dal socialismo cubano li rendono molto competitivi rispetto al resto delle comunità non native, ma non li rendono più liberi: più di un milione di cubani negli USA soffrono gravi limitazioni per relazionarsi con i loro famigliari a Cuba grazie alle misure di Trump, tuttavia non ci sono notizie che questo provochi proteste lì. Né leggiamo da nessuna parte che questa pubblica assenza di disaccordo si attribuisca alla corruzione ed alle pratiche repressive, per nulla democratiche, che la classe dominante sull’isola, fino al 1959, sembra aver impiantato a Miami durante la sua già lunga permanenza in quella città, senza disdegnare l’esempio edificante che gli ha offerto un sistema che oggi mette a competere, per corruzione, Donald Trump e Joe Biden.

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